Ogni luglio, quando il sole della Sicilia si fa fucina di chiarori e la Valle del Belìce vibra come un grande tamburo primordiale con le Orestiadi. Gibellina risorge in uno dei suoi riti più antichi e insieme più audaci: il Festival delle Orestiadi. L’edizione numero quarantaquattro, affidata alla cura registica di Alfio Scuderi, ha scelto un sottotitolo che è già dichiarazione di poetica – «ascoltando il passato, guardando al futuro» – e lo incarna letteralmente nei due luoghi che ospiteranno la rassegna dal 4 luglio al 3 agosto: il Baglio di Stefano, cuore pulsante della Fondazione Orestiadi, e il Cretto di Burri, deserto scultoreo che conserva nel silenzio le cicatrici del terremoto del 1968. Tra questi estremi – il grembo ospitale del baglio, l’altopiano di cemento che immagina rovine come nuova geografia – si snoderanno storie di sangue e incanto, di memoria scolpita e promessa di metamorfosi.
Il sipario si apre la sera del 4 luglio, quando Sergio Rubini, attore e alchimista di voci, porta in scena il suo “Macbeth vs Macbeth”, rilettura febbrile del dramma shakespeariano in cui tutti i personaggi si riassumono in un solo corpo abitato da demoni multipli. Non c’è più corte scozzese né brughiera, ma un teatro mentale in cui il protagonista, scuoiato di qualsiasi paravento, dialoga coi propri fantasmi come un re Lear d’asfalto. La tromba scura e soffusa di Michele Fazio, dal vivo, fende l’aria con squilli che odorano di profezia: è un’anamnesi del potere che s’impasta con l’humus del Mediterraneo, riconducendo l’ambizione a un sudore che macchia le pietre del baglio come sangue. Rubini obbliga il pubblico a interrogarsi su quanta follia si annidi nel sillabare «sarò re» quando attorno non restano che macerie; la risposta è un eco che rimbalza sulle arcate arabo-normanne e si perde tra i filari di viti dove la notte sussurra.
All’indomani, sotto la Montagna di Sale di Mimmo Paladino, la scena cambia pelle ma non intensità: Fabrizio Bosso, tromba ardente dalle sbavature di vento metropolitano, e Julian Oliver Mazzariello, pianoforte duttile come acqua di fonte, porgono il loro omaggio a Pino Daniele con “Il cielo è pieno di stelle”. Qui il blues del Vesuvio incontra respirazioni modali, la melodia partenopea si lascia filtrare da brume jazzistiche e il risultato è un cielo sonoro in cui la nostalgia diventa ossigeno. Gli accordi di “Napule è” si distendono come vele spiegate, “Je so’ pazzo” trotta in un riff che sa di marciapiede e di risata, “Sicily” riapproda alla sua isola d’origine per scoprire che l’appartenenza è un gesto circolare. Su tutto aleggia la lezione di Pino: la semplicità come sintesi di mondi, il canto capace di chiamare per nome persino la solitudine. Gli ascoltatori, seduti tra sacchi di sale bianchi come lune, sentiranno forse l’antica ferita del Belìce pulsare a ritmo di funk, trasformata in un battito che unisce Napoli al Maghreb e oltre.
Il 6 luglio, a suggello di un trittico che osa l’accostamento fra tragedia, jazz e fiaba, Emma Dante consegna “Il canto della sirena” alle pietre ancora tiepide di giorno. La regista palermitana, maestra di parole cucite col filo dell’infanzia e dello stupore, riplasma “La Sirenetta” di Andersen in una liturgia per bambini e adulti dove l’azzurro non è colore rassicurante ma orizzonte di scelta. Agnese, la creatura del mare che brama la terra, baratta voce e coda per un amore forse impossibile: la metamorfosi dolorosa dei suoi arti diventa metafora di ogni crescita, di ogni patto stipulato con il desiderio. Viola Carinci, Davide Celona e Stephanie Taillandier ricamano la vicenda su un tappeto di conchiglie vocali, tra soffi di vento salato e piccole frasi che tagliano come spilli. Il pubblico, disteso sull’erba odorosa di mentuccia, assisterà al dilemma della sirena come se fosse specchio del proprio bisogno di cambiare pelle, mentre il cielo si fa violetto e la Montagna di Sale pare un veliero incagliato nell’aria.
Ma i primi tre giorni sono solo la scintilla di un falò destinato a bruciare per un mese intero. Al Cretto, la luce della luna traccerà sentieri d’argento su cui attori, musicisti, danzatori cammineranno come rabdomanti alla ricerca dell’acqua nascosta nelle crepe del tempo; al Baglio di Stefano, le voci di narratori e i passi di coreografi si incroceranno tra cantine e cortili, generando costellazioni effimere di senso. Gli appuntamenti futuri – dal teatro civile alla sperimentazione performativa, dagli omaggi ai maestri scomparsi alle nuove scritture emergenti – saranno tessere di un mosaico che osa accostare la polvere del passato alla freschezza di uno sguardo ancora in fieri. Alfio Scuderi, intessendo il programma come un arazzo di fili contrastanti, sembra voler dire che l’unica maniera di abitare la memoria è proiettarla oltre il bordo dell’oggi, affinché il dramma di Macbeth, il canto luminoso di Pino Daniele o la fiaba dolente di Agnese non restino reliquie, ma semi dentro la terra brulla di Gibellina.
Chi attraversa la Sicilia in queste settimane estive troverà dunque a Gibellina un altare dedicato alla capacità umana di reinventarsi. Tra le notti calde e i giorni di calce, si parlerà di potere e di redenzione, di amore barattato e di musica che guarisce, di paesaggi che trasformano le rovine in opera d’arte. Le Orestiadi continuano a incarnare lo spirito di una città nata due volte, memoria viva di un sisma e promessa di rinascita permanente: ascoltano il passato con orecchio attento e, insieme, spalancano finestre sul futuro, come se l’arte fosse l’unica architettura capace di unire ciò che la terra ha diviso.